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Tornato in Sardegna nel giugno del 1955, Ernst Jünger espresse gratitudine nei confronti della sua «seconda grande madre, il Mediterraneo», trasfigurando così il viaggio nell'estatica regressione verso una dimensione mitica, numinosa ed archetipica. «Io e Terra - Madre e Figlio»: con queste parole si può riassumere lo spirito tellurico che anima le annotazioni diaristiche sui suoi itinerari nel Mediterraneo, offerte per la prima volta al lettore italiano e gremite di epifanie che mostrano che «ovunque la terra è sacra, ovunque è un sepolcro, ovunque è un luogo di resurrezione». Di qui anche l'inquietudine crescente suscitata dall'hybris distruttiva dell'uomo moderno nei confronti degli ecosistemi. «È come se un'esplosione avesse investito il pianeta intero», scrisse Jünger nel 1978 in occasione del suo ultimo soggiorno in Sardegna: «più passa il tempo, più una luce abbagliante raggiunge ogni suo angolo». Lo scrittore registrò, pertanto, l'avanzata inarrestabile della tecnica quale strumento di una nuova forma di schiavitù (memorabile la descrizione dei primi, ipnotici, televisori) che strappa la vita dal suo fondo ctònio. Ecco, allora, la sua presaga riflessione sul fato dell'homo faber: «il nostro ruolo potrebbe essere simile a quello dello scorpione che si toglie di mezzo col suo stesso aculeo». Resta, quale fonte di consolazione nelle meditazioni saggistiche conclusive, la fiducia nell'eterna fecondità della natura: «il frassino del mondo, l'Yggdrasill, sotto la cui ombra si riunisce ogni giorno il consiglio degli dèi, non perirà assieme ad essi: sopravviverà al loro crepuscolo».